La partita della morte, quando Kiev sconfisse i nazisti sul campo

Saranno in molti ad aver visto il film di John Huston “Fuga per la vittoria“. Ed in molti a ricordare la rovesciata di Pelè che, di fatto, chiude il film in trionfo. Ma sono in pochi a sapere che il film è ispirato ad un fatto vero, avvenuto durante la seconda guerra mondiale. Tale evento è passato alla storia come “la partita della morte”. Dal nome, è facile dedurre come questa vicenda sia sprovvista di un lieto fine analogo a quello del film… Ma andiamo con ordine.

1942. Siamo a Kiev, già da un anno occupata dai nazisti. Le milizie del Reich tengono sotto controllo la popolazione con il pugno di ferro. Quando non sono i soldati ad uccidere, ci pensa la fame. In quegli anni Kiev è proprio uno dei peggiori posti in cui vivere. Un certo Iosif Ivanovič Kordik, in quel periodo, dirige il panificio cittadino, con l’appoggio del regime. Grande appassionato di calcio, Kordik riesce ad assumere nel suo laboratorio diversi calciatori che militavano nella Dinamo Kiev e nella Lokomotiv Kiev, le due squadre della capitale.

Nella primavera del 1942 gli occupanti decidono di regalare un po’ di vita alla popolazione del luogo. Riaprono i fiorai, i tram riprendono le loro corse e viene creato un piccolo campionato di calcio cittadino cui partecipano 6 squadre. Un modo come un altro per fare propaganda e dimostrare anche in ambito sportivo la superiorità della razza ariana. Infatti, 4 delle 6 squadre sono formate dalle forze di occupazione: una squadra ungherese, una romena, una formata da collaborazionisti ucraini e una da soldati tedeschi. Ma il vero trionfo ariano è rappresentato dalla Flakelf, una squadra composta dai migliori atleti delle forze armate naziste. Insieme a queste cinque squadre, si iscrive al campionato anche la squadra dei prigionieri, composta dai dipendenti del panificio, l’F.C. Start. Questa era composta da Mykola Trusevyč (il portiere, il capitano e il vero trascinatore della squadra), Mychajlo Svyrydovs’kyj, Mykola Korotkych, Oleksij Klymenko, Fedir Tjutčev, Mychajlo Putystin, Ivan Kuz’menko, Makar Hončarenko, Pavlo Komarov, Jurij Černeha, Petro Sotnyk, Volodymyr Balakin, Vasyl’ Sucharjev, Mychajlo Mel’nyk. Gli ultimi tre militavano con la Lokomotiv, mentre gli altri erano tutti giocatori della Dinamo.

Uno dei monumenti dedicati
Il campionato inizia per lo Start il 7 giugno, contro la Ruch, la squadra degli ucraini collaborazionisti. Esausti e denutriti, dopo il turno di lavoro, senza una divisa ufficiale e senza scarpini (a parte Hončarenko, lui i suoi non li aveva venduti), lo Start piega 7-2 la Ruch. Il risultato fa clamore, per quello che rappresenta: la vittoria del popolo sulle forze occupanti, seppur solamente in ambito sportivo. Il comando tedesco decide così di spostare le partite dello Start. Non più nello Stadio della Repubblica, ma allo stadio Zenit, più piccolo e in periferia. Perché diano meno nell’occhio.
Il 21 giugno, la Start inaugura il nuovo stadio con un 6-2 contro gli ungheresi. E pochi giorni dopo si sbarazza della selezione romena con un dilagante 11-0.
La leggenda dello Start, che si batte sul campo da gioco per l’onore della patria, comincia a diffondersi per la città. Nei giorni delle partite c’è chi mette a repentaglio la propria vita per portare del cibo ai giocatori, perché possano presentarsi nelle migliori condizioni. Da un magazzino spunta perfino un set di divise da gara nuovo di zecca, anche se di lana e siamo in piena estate.
Il 17 luglio è il turno della PGS, la squadra dei soldati semplici nazisti. La partita termina 5-1. Lo Start le vince tutte, anche un doppio incontro con un’altra e più battagliera selezione ungherese. Il mito della squadra “ribelle”, ormai scalda i cuori degli oppressi abitanti di Kiev.
Monumento di fronte allo stadio della Dinamo Kiev

Il 6 agosto si disputa così una specie di finalissima, che vede di fronte la temuta Flakelf e lo Start. Ma il risultato è sempre lo stesso. La squadra ucraina si impone con un perentorio 5-1.

Per i nazisti tutto questo deve finire. Ed organizzano così una sorta di rivincita, da disputarsi a distanza di 3 giorni. Il 9 agosto, di domenica questa volta, perché tutti possano assistere. E per l’occasione la Flakelf schiererà in campo davvero i migliori, richiamati in tutta fretta dai diversi fronti.

L’incontro deve finire con una vittoria per i tedeschi. Gli ucraini avrebbero avuto comunque il loro momento di gloria, la popolazione li avrebbe ricordati come grandi atleti (ma mai come eroi), i nazisti avrebbero dimostrato una volta di più la superiorità della razza ariana. Tutti contenti.

L’arbitro dell’incontro è un tenente nazista, che già negli spogliatoi chiede ai giocatori di “portare rispetto” per la squadra tedesca. Viene imposto loro il saluto nazista ad inizio match. Cosa che non fanno. E una volta in campo, il gioco duro tedesco non viene punito dall’arbitro. Sugli spalti ci sono poi dei cecchini appostati. Il clima non è proprio da giornata di festa. In campo si sta disputando una guerra. Il primo tempo termina però 3-1 per lo Start, nonostante le evidenti difficoltà che è costretto ad affrontare (per esempio, dopo 10 minuti, un calcio al volto stende il portiere Trusevyč, e lo costringe per tutta la partita a giocare con una brutta ferita al volto). Succede quindi che tra il primo e il secondo tempo, un ufficiale nazista faccia visita allo Start negli spogliatoi. Il messaggio è chiaro: devono perdere.
E verso questa soluzione sembra avviarsi la partita, quando rapidamente i nazisti si riportano sul 3-3. Ma ogni considerazione sull’opportunità o meno di perdere, alla vista del pubblico deluso, viene abbandonata. Devono vincere, non per loro stessi, ma per la gente di Kiev. Sanno benissimo cosa rappresenti quella partita e non possono più tirarsi indietro.
Davanti allo stadio Zenit (ora Start).
La frase di dedica recita: “A uno che se lo è meritato”.
Il 9 agosto del 1942, la squadra del panificio, composta da operai denutriti e malfermi, si impone sulla corazzata Flakelf, composta dai migliori atleti del regime, per 5-3. E, come se non bastasse, proprio a ridosso del fischio finale, Klymenko scarta tutta la difesa, portiere compreso, e anziché depositare la palla in rete, la spazza via verso il centro del campo. Tutto questo davanti agli occhi degli ufficiali nazisti in tribuna d’onore. L’ultimo sfregio. Ma questa volta hanno esagerato, e la vendetta sarà tremenda.

All’indomani del match, i ragazzi del panificio vengono arrestati. Il primo a morire è  Korotkych, arrestato e poi ucciso dalla Gestapo, perché accusato di collaborare con il governo sovietico. Trusevyč, Kuz’menko e Klymenko, muoiono tutti e tre lo stesso giorno in un campo di lavoro, il 20 febbraio. Per gli altri la fine è analoga. Moriranno quasi tutti a poca distanza dall’arresto. Di certo si salvò Hončarenko, e probabilmente un altro paio di giocatori. Ma per gli altri  non vi fu scampo.
Oggi ci sono alcuni monumenti che ricordano quegli avvenimenti e, cosa più importante, la memoria collettiva di un popolo, che considera ancora oggi quegli uomini degli eroi. Anche se la storia è un po’ romanzata, perché costruita sulla base di testimonianze. E magari non tutto quello che si racconta sia successo, perché adottato dalla propaganda. Anche se sollevassimo dei legittimi dubbi di veridicità, dopo aver sentito una storia del genere, che importanza avrebbero queste considerazioni di fronte a ciò che “la partita della morte” rappresenta? Nessuna, anche se questa fosse soltanto una favola.